Fort-da

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“la matrice di ogni psicodramma, secondo noi, è il gioco del rocchetto o del fort-da descritto da Freud”. (Lemoine 1972, pag.9)
“Ora, senza voler abbracciare tutto il campo di questi fenomeni, ho sfruttato un’occasione che mi si è offerta per chiarire il significato del primo giuoco che un bambino di un anno e mezzo si era inventato da sé. Si è trattato di qualcosa di più di una fuggevole osservazione, poiché sono vissuto per alcune settimane sotto lo stesso tetto del bambino e dei suoi genitori, ed è passato un certo tempo prima che riuscissi a scoprire il significato della misteriosa attività che egli ripeteva continuamente[…] Lo sviluppo intellettuale del bambino non era affatto precoce; a un anno e mezzo sapeva pronunciare solo poche parole comprensibili e disponeva inoltre di parecchi suoni il cui significato veniva compreso dalle persone che vivevano intorno a lui. In ogni modo era in buoni rapporti con i genitori e con la loro unica domestica, ed era elogiato per il suo “buon” carattere. Non disturbava i genitori di notte, ubbidiva coscienziosamente agli ordini di non toccare certi oggetti e non andare in certe stanze, e, soprattutto, non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno. Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o–o–o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o–o–o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto”. (Freud 1920, p. 200-201)

Attraverso la funzione della rappresentazione il bambino ha la possbilità di dominare il reale, di passare da una funzione passiva ad una attiva; dopo aver dovuto subire la separazione, l’infante può rappresentarla simbolicamente; il rocchetto non sostituisce la madre ( non è il suo equivalente, non la identifica sul piano immaginario) ma diviene simbolo di tutto ciò che può scomparire.

“Nella sua forma completa, il gioco introduce alla prima conquista della relazione simbolica come tale, da cui solamente dipende l’accesso a una realtà umanizzata, non disumana. Una conquista che comporta la rottura del cerchio chiuso e autosufficiente del narcisismo primario e l’apertura a una realtà che può essere connotata come umana solo se fondata sull’esperienza del desiderio sessuale e dell’assunzione del limite della propria morte. […] Nel linguaggio freudiano, questo significa che la conquista della relazione simbolica si paga con la rinuncia al soddisfacimento pulsionale, con il sacrificio del godimento della Madre”. (Manghi 2010, pag.6)

Il bambino può prendere una certa distanza dalla separazione, rappresentendola, ne diviene padrone avendo la possibilità di far scompaire/ricomparire l’oggetto, diventa capace di affrontare situazioni analoghe e incontra anche le sensazioni di piacere e soddisfazione legate alla padronanza.

Allo stesso tempo vi è una perdita di godimento, una rinuncia alla soddisfazione immediata legata alla presenza dell’oggetto o dalla sua consumazione, “si verifica un cambiamento di meta per la libido” (Croce 2010, pag.46 ). Allo stesso modo, il soggetto, all’interno del gruppo di psicodramma, prima ricorda, poi rappresenta per poter accedere ad un passaggio simbolico.

“La caratteristiche del gioco psicodrammatico è il ritorno, un ritorno su di uno sfondo di assenza, su uno sfondo di lutto; ritorno e lutto sono necessari alla messa in atto della guarigione. In psicodramma è l’io ausiliario a prendere il posto del rocchetto. È l’assente che il protagonista fa ritornare. La differenza con il rocchetto sta nel fatto che l’io ausiliario risponde ( e la sua risposta è decisiva): invece di una ripetizione tale e quale della scena come un rocchetto, le modificazioni apportate dall’io ausiliare costituiscono altrettanti motivi per assumere una distanza critica rispetto ad una situazione rivissuta” (Lemoine 1980, p.6).

Bibliografia
Croce B. E., (2010), Il volo della farfalla, Borla, Roma
Freud S., (1920), Aldilà del principio di piacere, in Opere vol.9,  Bollati Boringhieri, Tornino, 2008.
Lemoine G. e P.,(1980), Jouer-Jouir. Per una teoria psicoanalitica dello psicodramma. Ubaldini editore.
Lemoine G. e P., (1972), tr.it. Lo Psicodramma, Feltrinelli editore, Milano, 1977.
Manghi Moreno (a cura di), Il gioco del Fort/da. L’entrata inaugurale della morte nella vita, 2010. www.lacanconfreud.it