Abbiamo messo a fuoco le diversità che caratterizzano i diversi centri didattici nel realizzare lo psicodramma freudiano (forse riprendere a nominarlo così rende più chiare all’esterno l’origine, l’eredità e l’appartenenza), diversità che, pur essendo una ricchezza, come abbiamo verificato, hanno implicazioni nella formazione dello psicodrammatista, nella trasmissione e nella docenza Coirag (tema di cui ci stiamo occupando in questi ultimi tempi), implicazioni sulle quali vale la pena riflettere. L’aver condiviso esperienze di psicodramma in varie situazioni, e il voler ripetere tale esperienza ora a Bologna, comporta una complessità che rende ancora più intrigante e interessante la teoria dello psicodramma e di conseguenza la prassi.
Riassumo tali differenze solo nominandole: cambi di ruolo in diverse posizioni; il tempo del doppiaggio; fedeltà al discorso del soggetto da parte degli ego ausiliari; gli “a solo” in posizione diversa; diversi giochi della stessa persona nella seduta; l’osservazione… Sul Forum della Sipsa si possono leggere vari scritti attorno a questi temi. Per capirci, provo a fare un esempio. Ad Apeiron, e non so in quali altri centri didattici, proponiamo un solo cambio di ruolo con la persona con la quale il soggetto si è identificato. Si sceglie l’ego ausiliario per un tratto unario, per un significante, e prendere quel posto diventa faticoso, a volte impossibile, comunque impegnativo, ma spesso è dal posto dell’Altro che si riesce ad
accogliere sé come soggetto, e forse a sperimentare i danni che la ripetizione del romanzo familiare impone nella costruzione del futuro. È nel luogo dell’Altro che si può sentire quanto l’immaginario blocchi il passaggio al simbolico. Far fare invece al partecipante tanti cambi quanti sono i personaggi nella scena, corrisponde certo alle tante parti di sé che proiettiamo sull’Altro e quindi dà modo di verificare che l’incontro con l’Altro in carne ed ossa è impossibile e che siamo attrezzati a vedere solo la nostra ombra proiettata sull’altro. Poterlo riconoscere permette di allentare le catene dell’Edipo, diminuisce l’aggressività verso l’altro esterno e porta ad accettare la conflittualità interna. Ma questo non alimenta l’immaginario del soggetto e dei partecipanti, rendendo più difficile il passaggio al simbolico che l’animatore dovrebbe far notare e punteggiare?
Nel cambio di ruolo si scopre, e non sempre avviene, che si possono vestire i panni dell’Altro, come ci si sta e se ci si può stare; è in questa
identificazione che si può passare dalla posizione dell’ego ausiliario alla posizione psichica dell’assenza; non si “prende” “il rocchetto” “per” la madre, ma si incontra la propria angoscia per la madre perduta, per l’assenza della persona amata. Si incontra la castrazione.
Il problema è evidentemente molto delicato. Proviamo a consultare i “sacri testi”. I Lemoine sembrano (a me almeno) propendere per l’identificazione “unica”, soprattutto quando descrivono la clinica; scrivono infatti: “ci sono due identificazioni simultanee: una ripetuta e rappresentata, l’altra attuale e nuova. Ciascuno, sia che interpreti oppure si identifichi con la persona che sta interpretando, rinuncia ad avere o essere l’altro (… ) Il soggetto rinuncia dunque all’altro, ma lo recupera sul piano simbolico dove una parte di reale sempre si perde e una parte sempre si guadagna (…) Egli accetta di perdere una parte di reale grazie alla presenza dell’altro, perché egli si recupera per e tramite un altro soggetto nel quale si identifica (…). Probabilmente il gruppo così concepito è lo strumento più prezioso che esista. L’identificazione ne è la chiave e la forza motrice, ma soprattutto apre l’accesso al buco fantasmatico.” (Lo psicodramma, pag 67 e sgg)
Studiando Gaudé, invece, troviamo: ”la nostra pratica dello psicodramma porta ciascuno ad esporre nella piena accezione del termine, il dibattito soggettivo che intrattiene con le sue identificazioni essenziali (…) Queste identificazioni sono strettamente legate al contesto familiare dell’infanzia e dunque la loro evocazione- e la loro revoca- porta con sé immancabilmente delle Figure genitoriali e fraterne (…) Queste rientrano di fatto nell’ambito delle esigenze del simbolico, della successione delle generazioni e della trasmissione della genitorialità (…). Queste identificazione inoltre, con le promesse per l’avvenire del soggetto che comportano, sono, per la gran parte (…) già assegnate al
piccolo dell’uomo prima che diventi un soggetto; costituiscono addirittura la condizione del divenire un soggetto. ( Sulla rappresentazione, p. 51)
Come si vede sono due modalità diverse che non intaccano il metodo dello psicodramma freudiano. Dobbiamo riprendere in mano il dispositivo e fare appello alla flessibilità, ad una leggerezza calviniana che ci faccia uscire dall’ingessatura di una prassi che dipende dall’eredità ricevuta nella nostra formazione, per essere attenti, invece, ad usare una modalità o l’altra sulla base dell’ascolto della domanda del soggetto e del transfert.
Forse è necessario oggi prendere tutte le diversità elencate e passarle al setaccio della nostra ormai più che consolidata esperienza e scambiarci pensieri, perché la comunità scientifica piccola ma al lavoro possa continuare con passione la propria ricerca.
L’ulteriore passaggio che propongo a me e ai colleghi della nostra piccola comunità scientifica è di identificare gli oggetti psicoanalitici nello psicodramma e come ognuno di noi li vive nella clinica, iniziando dall’oggetto che più caratterizza lo stile della nostra pratica. Per quello che mi riguarda, vorrei riflettere sullo sguardo, oggetto piccolo a, tralasciando per ora gli altri (seno, feci, voce…). Ri-vedere come psicodrammatista come vivo lo sguardo, meglio come lo sguardo mi anticipa nel gruppo di psicodramma che conduco ormai da moltissimi anni iniseme a Carmen. Tralasciamo il tempo dell’attesa, prima che il gruppo inizi: ci saranno tutti? Sarà assente per la seconda volta Giovanna?… Entrano i partecipanti, si siedono, spesso sempre nello stesso posto; oppure ci sono cambiamenti? In genere, dopo un tempo di silenzio secondo me molto importante, tempo condiviso come se si accordassero gli strumenti per iniziare a suonare una musica sconosciuta, prodotta però da un dispositivo noto, rigoroso. Sembra che per colui che inizia a parlare la sola presenza non lo garantisca dalla solitudine. Avverte una sorta di isolamento nel mutismo dei suoi pensieri. Prendere la parola rompendo il silenzio è un passaggio importante, in tanti sensi: rende Soggetto, ricostruisce il legame con l’Altro, documenta con la sua voce l’esistenza dell’uditorio e il legame con il sociale. Il silenzio è il prezzo della parola, la base su cui essa si in-staura. A quel punto il soggetto si prende la responsabilità di impostare il discorso della seduta. In questa prima fase sono sempre colta di sorpresa e curiosità per quelle prime parole, prime immagini, soprattutto se vengono dai sogni raccontati. Prendere la parola è dunque prendere lo sguardo, perché in quel tempo gli occhi degli psicodrammatisti, quelli degli altri partecipanti sono su di lui. Sento questo mio sguardo frontale, attento, penetrante, diventa quasi un vis-a-vis, perdo di vista la prospettiva obliqua a cui il gruppo obbliga.
Sto cercando di attuare l’ascolto della parola con gli occhi, in modo da aprire due canali simultanei ma divergenti: le orecchie sono “aperte” al partecipante che parla, mentre gli occhi “ascoltano”. Il gruppo in silenzio accoglie o respinge pensieri, ricordi, materiale che si aggira in cerca di chi afferra come un salvagente una parola, un accostamento, una divergenza, insomma, e si aggancia, ma in genere più per suggestione e associazione che non per il senso. Il mio sguardo segue questi movimenti da un partecipante all’altro, fin quando la libera associazione (chiamiamola così per comodità) non si fa quadro di cui intuisco la cornice ma non conosco ancora quale scena si dipingerà. È la fase dello stile di scambio di emozioni, parole, immagini, dialoghi con partecipanti che si arrischiano nella parola. Si comincia a formare il discorso di seduta,
l’invocazione nella dimensione del sembiante e dell’artificio della rappresentazione. Lo spazio, il vuoto, si fa visione: qui c’è la casa, qui il giardino, il confine è in questo punto, la finestra, la porta, il posto che nella scena occupa il soggetto, gli ego ausiliari, lo psicodrammatista. Capisco che l’intensità del mio sguardo in questa fase viene dalla mia esperienza passata come pittrice. Allora il mio sguardo sull’oggetto non solo era attento, ma proiettato già alla rappresentazione, alla creazione del nuovo. Ed eccoci ancora alle Meninas di Velazquez. Il pittore è rappresentato nella tela, pennello e tavolozza nelle mani, nell’atto in cui passa lo sguardo dal “modello”- la scena rappresentata- direttamente a me spettatore. Come psicodrammatista si è ugualmente presenti nella scena, ma lo sguardo va dal soggetto in gioco, “guardato” anche con le orecchie (ascolto), alla scena che si costruisce e “si dà da vedere”, ma che va colta nella prospettiva dell’invisibile. La visione di un episodio della vita del soggetto che parla, o di un sogno, è perduta per sempre, ma proprio per questo è sempre riproducibile in absentia. Velazquez rappresenta nel suo quadro il pittore (se stesso) che dipinge la scena, in una sorta di gioco degli specchi, ma il vero soggetto del quadro è il grande rovescio della tela: non la scena visibile e seducente, ma l’invisibile. E’ il trionfo della castrazione. Come psicodrammatisti, anche noi siamo visibili nella messa in scena, anche noi giochiamo con il nostro corpo e con la nostra psiche, ma spesso lo splendore della scena manifesta ci cattura e nasconde al nostro sguardo l’invisibile, il buco, la morte, l’assenza, il Reale. Il nostro sguardo è “catturato” nel senso proprio: è prigioniero della scena e questo rende difficile il viaggio nei meandri della psiche, sempre sconosciuta. Talora cadiamo nell’ingenuità di intendere il mistero della estensione della psiche, di cui Freud parla, in maniera letterale e di leggere così immagini e parole del racconto:: ciò che è in alto è il super-io o l’ideale dell’io, al centro l’io e in basso cantine, garage, pozzo etc, l’inconscio. L’esperienza mostra invece che la scena manifesta rappresenta l’immaginario, il sembiante, che può essere un primo nucleo di verità, ma che va transitato per arrivare ad abitare insieme al soggetto le regioni psichiche del simbolico che si aprono all’ignoto. Ed è su questo passaggio che fermo queste brevi riflessioni per condividerle in prossimità dell’incontro di Bologna.
Programma
11.00 – 11.30: Presentazione della giornata.
Sedute di psicodramma dei vari Centri Didattici:
11.30 – 12.30: Centro Didattico di Alessandria
12.30 – 13.30: Centro Didattico di Bari
13.30 – 14.30: Pausa pranzo
14.30 – 15.30: Centro Didattico di Bologna/Rimini
15.30 – 16.30: Centro didattico di Roma
16.30 – 18.00: Riflessioni e Discussione