ARTICOLO DEL MESE – “La psicoanalisi è costituente per un’etica che sarebbe quella di cui il nostro tempo ha necessità?”

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ARTICOLO DEL MESE – “La psicoanalisi è costituente per un’etica che sarebbe quella di cui il nostro tempo ha necessità?”

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La psicoanalisi è costituente per un’etica che sarebbe quella di cui il nostro tempo ha necessità?

Monsignore, Signore, Signori,

Vi ho lasciati ieri sera con una serie di giudizi trincianti su Freud, sulla sua posizione riguardo all’etica, sull’onestà del suo intento. Per chi?

Credo che Freud sia assai più vicino al comandamento evangelico: “Amerai il prossimo tuo” di quanto egli non sia disposto ad am- mettere. Poiché non lo ammette, lo ripudia come eccessivo nel suo ergersi a imperativo, o lo sbeffeggia nel suo porsi come precetto dai benefici illusori in una società che continua a chiamarsi cristiana. Ma sta di fatto che egli s’interroga su questo punto, che ne parla in quell’opera stupefacente che s’intitola Il disagio della civiltà.

Tutto sta nel senso del “come te stesso” con cui termina il co- mandamento, e la passione diffidente propria di colui che smaschera, trattiene Freud davanti a questo “come”. È del peso dell’amore che si tratta, e Freud sa quanto grande sia l’amore di sé; lo sa più di ogni altro, perché ha riconosciuto che la forza del delirio vi trova la sua origine: “Sie lieben ihren Wahn wie sich selbst”; “essi amano il loro delirio come se stessi”, ha scritto. Freud ha designato col nome di narcisismo questa forza, che implica una dialettica che mette a disagio gli psicoanalisti. È per farla comprendere che ho introdotto nella teoria la distinzione rigorosamente metodica del simbolico, dell’immaginario e del reale.

“Io mi amo io stesso” senza dubbio, e con tutta la rabbia vischiosa con cui la vescicola vitale si accanisce su se stessa, gonfiandosi in una palpitazione a un tempo vorace e precaria, mentre fomenta nel suo seno il punto vivo da cui la sua unità schizzerà, disseminata dalla sua stessa esplosione. In altri termini, io sono legato al mio corpo dall’energia peculiare che Freud ha messo al principio dell’energia psichica ─ l’Eros, che congiunge i corpi viventi perché possano riprodursi ─, e che ha chiamato libido.

Ma quello che amo per il fatto che c’è un io, a cui mi lega una concupiscenza mentale, non è il corpo, dal battito e dalla pulsazione che sfuggono così evidentemente al mio controllo, bensì un’immagine che m’inganna mostrandomi la mia unità nella sua Gestalt, nella sua forma. Egli è bello, egli è grande, egli è forte, e lo è tanto più quanto è brutto, piccolo e miserabile. Io mi amo io stesso in quanto essenzialmente mi disconosco; non amo che un altro, un altro con un piccolo a iniziale, da qui l’usanza dei miei allievi di chiamarlo “il piccolo altro”.

Nessuno stupore che non sia altro che me stesso che amo nel mio simile. E non solo nella devozione nevrotica, stando a ciò che l’esperienza c’insegna, ma anche nella forma diffusa e usuale dell’altruismo ─ sia esso educativo o familiare, filantropico, totalitario o liberale, e a cui si vorrebbe spesso dover rispondere mostrandogli graziosamente il didietro ─ l’uomo non mette in pratica se non il suo amor proprio. Senza dubbio questo amore è stato da molto tempo rivelato nelle sue stravaganze, anche gloriose, dall’indagine moralista delle sue pretese virtù. Ma l’indagine analitica dell’io per- mette d’identificarlo con la forma dell’otre (outre), con l’eccesso (ou- trance) d’oscurità che trasforma in preda il cacciatore, con la vanità di una forma visiva. Ecco la dimensione etica di ciò che ho articola- to, per farlo comprendere, col termine dello stadio dello specchio.

Freud c’insegna che l’io è fatto d’identificazioni che si sovrappongono, come una buccia, una specie di guardaroba composto di parti già pronte per l’uso, benché spesso l’insieme risulti bizzarro. Mediante le identificazioni alle sue forme immaginarie, l’uomo crede di riconoscere il principio della sua unità sotto forma di una padronanza di se stesso che lo inganna inevitabilmente, sia essa o no illusoria, poiché quell’immagine fissata di sé non gli corrisponde in niente; solo la sua smorfia, la sua cedevolezza, la sua disarticolazione, il suo smembramento, la sua dispersione ai quattro venti, cominciano a indicargli qual è il suo posto nel mondo. E c’è voluto molto tempo perché egli potesse abbandonare l’idea di un mondo creato a sua immagine, e perché potesse riconoscere che l’essenza del mondo fosse ciò che, di questa immagine, egli ritrovava sotto la forma dei significanti di cui l’industria aveva cominciato a disseminare il mondo. È a questo punto che appare l’importanza decisiva del discorso della scienza chiamata fisica, e che si pone la questione di un’etica a misura di un tempo individuato come il nostro tempo.

Il discorso della scienza rivela che non resta più niente di un’estetica trascendentale mediante cui si stabilirebbe un accordo, foss’anche perduto, tra le nostre intuizioni e il mondo. La realtà fisica si rivela ormai impenetrabile a qualunque analogia con un qualsiasi tipo dell’uomo universale. Essa è integralmente, totalmente inumana. Il problema che ci si presenta non è più il problema della conoscenza (co-naissance), di una connaturalità che ci schiude all’amicizia delle apparenze. Sappiamo cosa sono diventati la terra e il cielo, l’una e l’altro disabitati da Dio, e la questione è di sapere quello che vi facciamo apparire nelle disgiunzioni che costituiscono le nostre tecniche.

Ho detto “le nostre tecniche”, e su questo punto forse mi replicherete: “tecniche umane, e al servizio dell’uomo!”. Senza alcun dubbio, tuttavia esse sono diventate efficaci solo quando hanno po- sto a loro principio una scienza che, se così posso dire, si è “scatenata” solo quando ha rinunciato a ogni antropomorfismo, non fosse che quello della buona Gestalt delle sfere, la cui perfezione costituiva la garanzia della loro eternità, o quello della forza, in cui l’impetus si ripercuoteva fino al cuore dell’azione umana.

Una scienza fatta di piccoli segni e di equazioni apprese, e che partecipa dell’inconcepibile precisamente per il fatto che dà ragione a Newton contro Descartes. Una scienza che non ha forma atomica per caso, dato che è la produzione dell’atomismo del significante che l’ha strutturata, quello stesso atomismo su cui si è voluto ricostruire la nostra psicologia e contro cui insorgiamo quando si tratta di comprenderci noi stessi, senza riconoscere che, da questo atomismo, siamo abitati. È per questo che Freud è potuto partire dalle ipotesi dell’atomismo psicologico, indipendentemente dal fatto che l’abbia accettato. Egli, infatti, non tratta gli elementi dell’associazione come delle idee che esigono la genesi della loro epurazione a partire dall’esperienza, ma come dei significanti, la cui costituzione implica innanzitutto la loro relazione con ciò che di radicale si nasconde nella struttura: il principio di permutazione.

Principio di permutazione vuol dire che una cosa può essere messa al posto di un’altra per qualcuno, e solo a questa condizione rappresentarla. Si tratta di un significato della parola “rappresentazione” completamente diverso da quello delle pitture, delle Abschattungen 1, dove il reale sarebbe supposto ammannirci non so quale streap-tease. Anche Freud l’ha articolato rigorosamente dato che, per definire ciò che è rimosso, non ha usato il termine Vorstellung ─ benché l’accento nel materiale dell’inconscio sia messo sul rappresentativo ─ ma il termine Vorstellungsrepräsentanz.

Su questo punto non mi dilungherò oltre. Voglio solo farvi osservare che non indulgo qui a nessuna costruzione filosofica ma cerco di richiamarmi ai materiali più immediati della mia esperienza, e se faccio ricorso al testo di Freud per testimoniare di questa esperienza è perché vi ritrovo una congiunzione rara, checché ne possa dire una critica tanto pignola quanto ottusa, come accade a chi non fa che parlare continuamente di “comprensione”. C’è un raro accordo, dico, eccezionale nella storia del pensiero, tra il discorso di Freud e la Cosa che ci rivela. Il suo esserne consapevole è fuor di dubbio, ma, dopo tutto, conformemente a ciò che egli ci rivela, mi spingerò a dire che l’accento di consapevolezza posto su questo o quel punto del suo pensiero è secondario.

Le rappresentazioni per Freud non hanno più niente di apollineo, il loro impiego è elementare.

Il nostro apparato neurologico opera in modo che noi alluciniamo ciò che può soddisfare i nostri bisogni. Questo costituisce forse un progresso rispetto a quanto possiamo presumere se consideriamo la reattività dell’ostrica rintanata sul suo scoglio, ma è anche pericoloso, perché ci lascia alla mercé della sensazione, di un semplice campione del gusto o della palpazione, e, come ultima risorsa, a ricorrere al pizzicotto per sapere se non stiamo sognando. Ecco tracciato lo schema di funzionamento del duplice principio che comanda, secondo Freud, l’accadere psichico ─ il principio di pia- cere e il principio di realtà ─ nella misura in cui su di esso si innesta la fisiologia della relazione naturale dell’uomo col mondo.

Sorvoleremo sul paradosso che una simile concezione costituisce dal punto di vista di una teoria dell’adattamento della condotta, se pensiamo che essa orienta il tentativo di ricostruzione di una certa idea di etologia; quello che importa, in questo schema dell’apparato [psichico], è ciò che il suo funzionamento effettivo introduce, una volta che Freud vi scopre la catena degli effetti propriamente inconsci.

Non è mai stato veramente colto il rovesciamento che a livello stesso del duplice principio [dell’accadere psichico] l’effetto dell’inconscio comporta. Rovesciamento, o piuttosto ricusazione (ré- cusation) (2) degli elementi ai quali questi principi sono ordinaria- mente associati.

La funzione del principio di realtà, e in particolare quanto della coscienza si collega episodicamente a esso, si dedica al servizio della soddisfazione del bisogno; la coscienza, infatti, è legata agli elementi del sensorio privilegiato in quanto essi sono in rapporto con l’immagine primordiale del narcisismo. Inversamente, i processi di pensiero, tutti i processi di pensiero ─ compreso (compris), stavo per dire compromesso (compromis) il giudizio stesso ─ sono dominati dal principio di piacere. I processi di pensiero, che risiedono nell’inconscio, diventano coscienti solo mediante la verbalizzazione teoretica (théorisante) ─ la quale, come ho detto ieri, li organizza secondo la struttura del linguaggio ─ che li propone alla riflessione.

La conseguenza, o piuttosto la vera ragione dell’inconscio, è che l’uomo sappia fin dall’origine che egli sussiste in una relazione d’ignoranza. Questo significa che l’accadimento psichico dell’uomo comporta una divisione iniziale (première) a causa della quale tutto ciò che lo fa palpitare ─ comunque lo si voglia classificare, appetito, simpatia e, in generale, diletto (plaisance) ─ lascia al di fuori e con- torna la Cosa a cui è destinato tutto ciò che egli sperimenta in un’orientazione del significante già predicativo.

Tutto questo non sono stato io a scovarlo nell’Entwurf ─ in questo progetto di psicologia scoperto tra le carte della corrispondenza di Freud con Fliess ─ perché vi appare già chiaramente, ma si apprezza veramente solo se si mostra l’ossatura di una riflessione che si è realizzata in una pratica incontestabile.

Lo stretto legame di ciò che Freud chiama propriamente la Wis- sbegierde ─ che in tedesco è una parola molto forte, la cupido scendi, in francese dovremmo dire l’avidité curieuse (l’avidità curiosa) ─ con la svolta decisiva della libido, è un fatto rilevantissimo che si ripercuote in mille tratti determinanti nello sviluppo individuale del bambino.

Tuttavia la Cosa non è oggetto e non saprebbe esserlo, dal mo- mento che il suo termine (terme) sorge come correlato di un soggetto ipotetico solo in quanto questo soggetto sparisce, svanisce─ fading del soggetto e non termine (terme) ─ sotto la struttura significante. Il fatto è che questa struttura esiste già prima che il soggetto prenda la parola e con essa si faccia portatore di alcuna verità, né pretendente ad alcun riconoscimento.

Nel vivente che viene ad abitare il discorso e che prende la parola, la Cosa è dunque ciò che contrassegna il posto in cui egli patisce del manifestarsi del linguaggio nel mondo. È così che ovunque appare l’essere rispetto a cui l’Eros vitale incontra il limite della sua tendenza a unire.

Questa tendenza all’unione in Freud è considerata in termini organici, biologici, pur non avendo niente a che fare con quello che in- segna la biologia, ultima arrivata delle scienze fisiche. Si tratta infatti di un investimento erotico degli orifizi principali del corpo. Da qui la famosa definizione freudiana della sessualità, da cui si è voluto dedurre una pretesa “relazione d’oggetto” detta orale, anale, genitale, relazione che implica in se stessa una profonda ambiguità, una confusione, poiché dà rilievo a un correlativo naturale camuffandolo da riferimento a una norma dello sviluppo.

È a causa di simili confusioni che la maledizione di san Matteo contro coloro che ammassano nuovi fardelli per caricarli sulle spalle degli altri, colpirebbe coloro che autorizzano nell’uomo il sospetto (3) che vi sia qualche tara personale all’origine dell’insoddisfazione inerente alle relazioni d’amore.

Se Freud ― e la casuistica (4) erotologica (5) nel corso dei secoli non ha saputo fare meglio di lui ― ha scoperto i motivi del degrado della relazione amorosa, l’ha messa innanzitutto in relazione al dramma dell’Edipo, ossia a un conflitto drammatico che struttura una fendi- tura (6) più profonda del soggetto, una Urverdrängung, una rimozione arcaica. Da allora, pur facendo posto alla rimozione secondaria che costringe a separarsi le correnti da lui distinte come la corrente del- la tenerezza e la corrente del desiderio, Freud non ha tuttavia mai avuto l’audacia di proporre una cura radicale del conflitto inscritto nella struttura. Se ha potuto delineare ─ come nessuna caratterologia primitiva o moderna aveva mai fatto─ quelli che ha chiamato “tipi libidici”, è solo per formulare espressamente la conferma che vi è qualcosa d’irrimediabilmente falsato (faussé) nella sessualità umana.

Ecco senza dubbio perché Jones, nell’ottemperare al necrologio che onorava colui che era stato il maestro più appassionatamente ammirato, non ha potuto fare a meno ― benché fosse un sostenitore dichiarato di una Aufklärung risolutamente antireligiosa ― di collocarlo, per l’idea che aveva del destino dell’uomo, sotto il patronato, scrive, dei Padri della Chiesa.

Ma si può dire di più. Se Freud mette in carico alla morale sessuale il nervosismo imperante nell’uomo civilizzato del nostro tempo, non pretende, tuttavia, di offrire soluzioni in generale per una migliore disposizione di questa moralità.

L’oggetto recentemente immaginato dalla psicoanalisi come misura dell’adattamento libidico conformerebbe, secondo il suo modello, tutta una realtà come modo di relazione del soggetto al mondo. Relazione vorace, relazione ritentiva, o anche ― per usare un termine dagli intenti moraleggianti con cui la difesa della psicoanalisi in Francia ha infiocchettato le sue prime scappatelle ― relazione oblativa, che si rivelerebbe come l’idillio della relazione genitale.

Spetterebbe dunque allo psicoanalista ricacciare la perversione fondamentale (foncière) del desiderio umano (7) nell’inferno del pre- genitale in quanto caratterizzato dalla regressione degli affetti ? spetterebbe a lui far rientrare nell’oblio la verità svelata nei misteri antichi che “Eros è un Dio nero”?

L’oggetto di cui si fa così bella mostra designa solo un’imputazione grossolana degli effetti della frustrazione, che l’analisi si occuperebbe di temperare, col solo risultato di camuffare delle sequenze molto più complesse, la cui ricchezza come pure la singolarità, in un certo impiego ortopedico dell’analisi, sembrano stranamente eclissarsi.

Il ruolo singolare del fallo nella fondamentale (foncière) (8) disparità (disparité) ― cerco qui un equivalente della parola inglese odd ― della sua funzione, la funzione virile, si situa nella doppiezza della castrazione soggetta all’Altro, la cui dialettica sembra sottomessa a passare per la formula: “non è senza averlo”, mentre la femminilità, che è sottomessa inizialmente all’esperienza della privazione, fa il voto che il fallo esista simbolicamente nel bambino partorito, indipendentemente dal fatto che egli lo abbia o no.

Questo oggetto terzo, il fallo, che si è distaccato nella dispersione [del corpo] di Osiride (9) a cui poco fa abbiamo fatto allusione, riveste la più segreta funzione metonimica a seconda che s’interponga o venga assorbito nel fantasma del desiderio. Precisiamo che il fantasma è, a livello della catena dell’inconscio, ciò che corrisponde all’identificazione del soggetto che parla come Io nel discorso della coscienza. Nel fantasma il soggetto si sperimenta come colui che vuole a livello dell’Altro, questa volta con una A maiuscola, ossia [si sperimenta] nel posto in cui è verità senza coscienza e senza appello; è qui che egli si muta in quella densa assenza che si chiama il desiderio.

Il desiderio non ha oggetto, tranne, come dimostrano le sue stranezze, quello accidentale, sia esso normale oppure no, che si è trovato a significare ― per un attimo o in un rapporto costante ― i confini della Cosa, di quel niente attorno a cui ogni passione umana racchiude il suo spasimo dall’inflessione effimera o duratura, col suo periodico ripetersi.

Nell’anoressia mentale la passione della bocca che s’ingozza sfrenatamente è quel niente in cui il desiderio invoca la privazione dove si riflette l’amore. La passione dell’avaro è quel niente a cui è risotto l’oggetto rinchiuso nella sua amata cassaforte.

Come potrebbe mai soddisfarsi la passione umana senza la copula che congiunge l’essere come mancanza e questo niente?

Ecco perché se la donna, nel segreto di se stessa, si contenta di colui che soddisfa a un tempo il suo bisogno e la sua mancanza, l’uomo, che cerca la sua mancanza a essere al di là del suo bisogno ― pur coìs meglio assicurato di quello della donna, inclina a un’incostanza o, più esattamente, a uno sdoppiamento dell’oggetto, le cui affinità con quanto di feticismo si ritrova nell’omosessualità sono state assai curiosamente rintracciate dall’esperienza analitica, o fatte confluire con grande rigore nella teoria.

Non crediate, tuttavia, che pensi che la donna sia più favorita riguardo al godimento. Anch’essa non manca di avere le proprie difficoltà, e sono probabilmente più profonde, ma non è questa l’occasione per parlarne, benché debbano certo essere affrontate dal nostro gruppo con la collaborazione della Società olandese.

Spero solo di essere riuscito a farvi comprendere la struttura di questa topologia che mette al cuore di ciascuno di noi il luogo vacante (béant) da dove il niente ci interroga sul sesso e sull’esistenza ― quel luogo dove abbiamo da amare il prossimo come noi stessi, perché in lui questo luogo è il medesimo.

Sicuramente niente è più vicino a noi di questo luogo. Per farlo sentire prenderò a prestito la voce del poeta che, quali che siano gli accenti religiosi, è stato riconosciuto dai surrealisti come uno tra i loro i precursori. Si tratta di Germain Nouveau, che si firmava Humilis.

Frère, o doux mendiant qui chante en plein vent Aime-toi comme l’air du ciel aime le vent
Frère, poussant les bœufs dans les mottes de terre

Aime-toi comme au champ la glèbe aime la terre Frère qui fait le vin du sang des raisins d’or, Aime-toi comme un cep aime sa grappe d’or
Frère qui fait le pain, croûte dorée et mie
Aime-toi comme au four la croûte aime la mie Frère qui fait l’habit, joyeux tisseur de drap Aime-toi comme en lui la laine aime le drap
Frère dont le bateau fend l’azur vert des vagues Aime-toi comme en mer les flots aiment les vagues Frère joueur de luth, gai marieur de sons

Aime-toi comme on sent la corde aimer les sons
Mais en Dieu, Frère, sache aimer comme toi-même ton frère Et, quel qu’il soit, qu’il soit comme toi-même. (10)

Tale è il comandamento dell’amore del prossimo, davanti al quale Freud ha ragione di arrestarsi, sconcertato dalla sua invocazione, perché l’esperienza mostra ― e l’analisi articola come un m o- mento decisivo della sua scoperta ― l’ambivalenza per cui l’odio segue come un’ombra l’amore del prossimo, che è anche ciò che vi è in noi di più estraneo.

Come possiamo evitare, pertanto, di infliggergli dei tormenti per far sgorgare da lui il solo grido che potrà farcelo conoscere?

Com’è possibile che Kant non veda a che cosa va incontro la ra- gion pratica, interamente borghese, nell’erigersi a regola universale? La debilità delle prove che egli ne avanza ha a suo favore solo la debolezza umana ― su cui si sostiene il corpo nudo che un Sade può prestargli ― del godimento sfrenato, e per tutti. Occorrerebbe più che del sadismo ― un amore assoluto, ovvero impossibile.

Eccola dunque qui la chiave di quella funzione della sublimazione su cui sto trattenendo quelli che mi seguono nel mio insegnamento.

Sotto svariate forme l’uomo tenta di trovare un accordo con la Cosa: nell’arte fondamentale con cui la rappresenta nel vuoto del vaso dove è stata sancita l’alleanza di sempre; nella religione, che gli suscita il timore della Cosa, mantenendolo alla giusta distanza da essa; nella scienza, che non ci crede, ma che vediamo adesso messa a confronto con la malvagità fondamentale della Cosa.

Il Trieb freudiano, la principale e la più enigmatica nozione della teoria, è venuta a inciampare, con gran scandalo dei discepoli, sulla forma e sulla formula dell’istinto (instinct) di morte. Ecco nondimeno la risposta della Cosa quando noi non ne vogliamo sapere niente: neppure la Cosa sa niente di noi!

Ma non troviamo qui anche una forma della sublimazione attorno a cui, una volta di più, l’essere dell’uomo ruota sui suoi cardini? Quella libido di cui Freud ci dice che nessuna forza nell’uomo è più a portata di sublimarsi, non è forse l’ultimo frutto della sublimazione per mezzo della quale l’uomo moderno risponde alla sua solitudine?

Che la prudenza mi trattenga dal procedere troppo rapidamente!

Siano custodite le leggi mediante cui, solo, possiamo ritrovare il cammino della Cosa: le leggi della parola che la circoscrivono.

Vi ho messo innanzi la questione che è al cuore dell’esperienza freudiana, benché sia forse stata una follia, dal momento che anche il più accorto nel maneggio della psicologia non è al riparo dai suoi tranelli.

 Mi sono lasciato dire che ci sono stati dei seminari in cui si face- va la psicologia del Cristo. Che significa? È forse per sapere per qua- le verso il suo desiderio poteva essere acchiappato?

Insegno qualche cosa dai termini oscuri. Devo qui scusarmi: vi sono stato spinto da una necessità pressante rispetto a quella che mi ha portato davanti a voi, che è solo un momento, che vi aiuterà, spero, a comprendere. Ma non sono contento di questo posto, non è il mio, non è quello situato in capo al divano da cui il mio paziente mi parla.

Così, che il filosofo non si dia pena, come accadde a Ibn Arabi, di venirmi incontro dispensandomi le attestazioni della sua considera- zione e della sua amicizia, e per baciarmi, infine, dicendomi: “Sì”.

Beninteso, come Ibn Arabi, io gli risponderò dicendogli: “Sì”. E aumenterà la sua gioia, nel constatare che l’ho compreso.

Ma, prendendo coscienza di ciò che ha provocato la sua gioia, mi toccherà aggiungere: “No”

Note
1 – Nell’edizione Seuil Abschäumungen.
2 – Nel testo décussation. Seguiamo qui la lezione dell’edizione Seuil.
3 – Nel testo supçon; nell’edizione Seuil supposition.
4 – Parte della teologia che tratta dei casi di coscienza.
5 – Nel testo érotologique; nell’edizione Seuil ontologique.
6 –  Nel testo refonte, “rimaneggiamento”; nell’edizione Seuil refente (propriamente l’azione di segare longitudinalmente un particolare tipo di tronchi per poi assemblarli in una struttura portante), termine che deriva probabilmente da refendre, dividere o tagliare in due o più parti, che abbiamo tradotto con “fenditura”, preferendolo a “scissione”.
7 –  Nel testo foncière, letteralmente “innata”, da intendere qui nel senso della sessualità “perversa polimorfa” del bambino prima dell’Edipo, così come è descritta da Freud nei Tre saggi sulla sessualità, e da non confondere assolutamente con la perversione come esito, destino della pulsione, che comporta una scelta individuale.
8 – Cfr. la nota precedente.
9 – Tefnut e Shu generano Iside, Osiride, Neftys e Seth. Poiché Seth voleva avere il dominio sulla generazione, uccide Osiride e lo smembra in 14 pezzi che disperde per il mondo. Do- po lunghe e faticose ricerche Iside, sposa di Osiride, riesce a trovare i 13 pezzi del corpo e a ricomporli, ma non trova il fallo del suo compagno. Iside ricompone il corpo del marito, e gli fabbrica un fallo di legno (o di fango); Thoth, suo zio, proferisce delle litanie magiche che, unite alle lacrime di Iside, ridanno vita al fallo di Osiride che feconda la sua consorte e genera il figlio Horus, il quale poi sfiderà Seth. si riflette l’amore. La passione dell’avaro è quel niente a cui è ridotto l’oggetto rinchiuso nella sua amata cassaforte.
10 – Non avendo trovato traduzioni in italiano, non ci è rimasto che fare di necessità virtù: Fratello, tu dolce mendicante che canti esposto al vento,/ Amati come l’aria del cielo ama il vento./ Fratello, tu che spingi i buoi tra le zolle di terra,/ Amati come ai campi la gleba ama la terra./ Fratello, tu che fai il vino col sangue d’uve d’oro,/ Amati com’un ceppo ama i suoi grappoli d’oro./ Fratello, tu che fai il pane, crosta dorata e mollica,/ Amati come al forno la crosta ama la mollica./ Fratello, tu che fai le vesti, e intessi panni con gioia,/ Amati, come in sé la lana ama i suoi panni./ Fratello, tu che con la barca fendi l’onda turchese,/ Amati come in mare il flutto ama le onde./ Fratello, musico di liuti, gaio sensale di suoni,/ Amati come s’ode la corda ch’ama i suoni./ Ma in Dio, Fratello, sappi amare come te stesso/ Tuo fratello, e, chiunque egli sia, che sia come te stesso.